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Erano i tempi - 1


di adad
13.07.2019    |    13.099    |    8 9.7
"Le sue natiche carnose furono presto oggetto delle attenzioni del dio, che le impastò febbrilmente, le morse, le baciò, le leccò, strappando gemiti a..."
Erano i tempi in cui gli Dei camminavano fra gli umani sulle strade della terra; erano come noi, giocavano come noi, amavano come noi e in certe faccende facevano, ahimé, una concorrenza spietata ai miseri mortali. Del resto, chi avrebbe potuto competere con gli Dei Immortali, quando si invaghivano di una bella giovane o di un bel maschietto tutto sale e pepe?
Eh, già, perché pure gli Dei Immortali avevano certi gusti e la maggior parte, bisogna dire, se la spassavano tranquillamente con chiunque stuzzicasse il loro appetito, uomini o donne che fossero.

Un luminoso pomeriggio di giugno, un giovane bellissimo camminava fischiettando per un sentiero, che costeggiava le rive di un fiume, le cui acque scorrevano pigramente nella campagna assolata.
Faceva un gran caldo e qualche cicala aveva già fatto capolino dalla tana e dava inizio all’estenuante canzone con cui avrebbe accompagnato tutta l’afosa estate dell’Ellade.
Il giovane camminava speditamente, volendo arrivare ad un qualche rifugio, prima che il sole calasse dietro i monti d’Occidente. Certo era ancora alto, ma lui non conosceva quel territorio, ignorava del tutto cosa potesse trovare dietro la prossima svolta del sentiero: ogni tanto sollevava gli occhi, sperando di scorgere le mura di qualche santuario o anche solo di una capanna di pastori in cui chiedere ospitalità in nome di Zeus. Ma il sentiero si allungava solitario, lasciandogli intravvedere unicamente brevi scorci del vicino fiume, attraverso gli squarci delle siepi spinose.
Camminava scalzo e indossava solo un succinto gonnellino, che sembrava valorizzare ancora di più l’armoniosità del suo corpo abbronzato.
Ad un certo punto, la siepe dalla parte del fiume si interruppe e il giovane si volse a guardare il terreno che digradava dolcemente verso la riva del fiume. La visione di quelle acque limpide gli fece sentire all’improvviso tutta la stanchezza del cammino e il calore del sole che gli bruciava la pelle. Le gambe gli si appesantirono, una gran sete lo prese alla gola e lui non desiderò altro che scendere al fiume, immergersi un momento in quelle acque fresche e lasciarsi andare.
Non stette neanche a pensarci, qualcuno aveva già deciso per lui. Percorse con le gambe molli la breve discesa e, giunto sulla riva, si inginocchiò, chinandosi verso la corrente e bevendo a lunghe sorsate quell’acqua dolcissima al palato.
Placata la sete, si rese conto di essere sporco di tutta la polvere che il sudore gli aveva incrostato addosso; avvertì il lezzo delle ascelle e dell’inguine e, sorridendo, si fece da solo una faccia schifata.
Allora si tolse il gonnellino e con il guizzo si tuffò nel fiume. La frescura dell’acqua fu un sollievo immediato; prese, quindi, a sguazzare, immergendosi e riemergendo con l’elegante fluidità di un delfino. A poco a poco la corrente sciolse ogni lordura dalle sue membra e ritemprò i suoi muscoli, eliminandone ogni stanchezza.
Quando si sentì rimesso a nuovo, il giovane nuotò verso la riva e stava appunto risalendo verso la riva, quando:
“Così Afrodite nasceva dalle onde del mare…”, disse una voce melodiosa.
Sollevò di scatto la testa e fu allora che vide sdraiato presso la riva un giovane straordinariamente bello che lo fissava sorridendo. Ricambiò il sorriso, poi fece gli ultimi passi, uscendo dall’acqua e andando verso di lui, incurante della sua nudità.
“La bella Afrodite non sarà felice, - gli disse – nel vedermi paragonato a lei.”
“Anche perché tu sei molto più bello.”
“Taci, - gli fece però il giovane in tono serio – gli Dei non amano che si parli così di loro.”
L’altro non rispose, ma una luce furbesca gli brillò negli occhi.
“Io sono Akos, - disse – vieni, siediti vicino a me. Qual è il tuo nome?”
“Mi chiamo Thalos.”, rispose il giovane, sdraiandosi accanto a lui.
“Sembri molto lontano dalla tua patria, Thalos: cosa di spinge da queste parti?”
“Sono in viaggio per adempiere a un voto”
“Capisco. È importante soddisfare le promesse fatte agli Immortali.”, fece Akos, ma non gli chiese di cosa si trattasse, lo fissò invece a lungo negli occhi.
“I tuoi occhi sono più limpidi del cielo, quando Zeus lo tiene sgombro dalle nuvole.”, riprese dopo un po’.
Thalos sorrise, era felice di sentirsi dire quelle cose da un altro giovane così bello, dalla cui malia si sentiva pian piano avvolgere. Avvertì un fremito ai lombi. Il suo sesso iniziò a riprendere vita, mentre con la punta delle dita Akos gli sfiorava la coscia, facendolo rabbrividire di un piacere che nulla aveva a che fare con l’aspetto meramente fisico del gesto: era un piacere interno, un piacere dell’anima.
Si protese verso l’altro, chiudendo gli occhi, e le sue labbra incontrarono quelle non meno desiderose di Akos: si sfiorarono, poi si congiunsero in un bacio leggero. Quando i due giovani tornarono a guardarsi, i loro occhi sfavillavano di una luce irreale. Akos, che in realtà era Dioniso nella veste mortale con cui percorreva a volte i sentieri della terra, si levò a sedere e si sfilò la leggera tunica, svelando un corpo dalla perfezione divina.
Thalos lo fissò a lungo ammirato, poi allargò le braccia, stendendosi a terra, e lo accolse sopra di sé.
Akos accolse l’abbraccio e lo ricambiò, avvolgendogli attorno le braccia. La tenera erba del prato faceva un morbido materasso sotto di loro. I due corpi bruciavano nella stretta delle braccia, le labbra dell’uno incollate su quelle dell’altro, le lingue guizzavano in una danza impazzita, i sessi frementi pulsavano e spurgavano impazienti, compressi nell’abbraccio forsennato.
Thalos era perso ormai in una frenesia euforica, dove niente lo raggiungeva, tranne le ondate di piacere. Poi Akos si staccò da lui e, mentre una nuvola di nebbia li avvolgeva, a nascondere il loro amore da occhi indiscreti, si voltò all’incontrario e prese a leccargli l’uccello, che reagì con una colata di spurgo più consistente delle altre. Con un gemito di bramosia, il Dio prese in bocca quel glande sugoso e lo succhiò come una prugna matura.
Thalos, dal canto suo, non rimase inoperoso: con un guizzo abbrancò le natiche di Akos e si guidò nella bocca anelante il membro divino. Puro nettare stillava dalla minuscola bocca, nettare afrodisiaco, che rimosse da lui ogni residuo pudore.
A lungo si succhiarono, finché l’orgasmo gli esplose nei lombi e schizzate interminabili di seme riempì loro la bocca. Rotto a tali piaceri, il Dio bevve avidamente il sugo asprigno di Thalos, apprezzandone appieno la consistenza vellutata; ma Thalos era nuovo a questo gioco e quando si ritrovò la bocca piena ebbe un momento di ripulsa , ma fu solo un momento: spinto dall’esempio del compagno e dalla pura gustosità del seme divino, lo degustò a lungo, prima di farselo scorrere goccia a goccia nella gola.

Il sole era ormai tramontato, quando la nebbia si dissolse e i due si riscossero.
“Non mi sbagliavo, quando ti ho visto nuotare nel fiume come un delfino.”, disse Akos, dandogli ancora un bacio.
“Su cosa?”, chiese Thalos, ancora incantato.
“Sul fatto che eri pronto a darmi il tuo amore”
“Si fa notte! – esclamò Thalos, riscuotendosi – devo trovare un riparo: chissà quali pericolosi animali si aggirano qui di notte.”
“C’è una capanna di pastori poco lontano, - fece Akos, alzandosi con un guizzo – vieni ti accompagno.”
Lo prese per mano e tornarono nudi sul sentiero. Lo seguirono per un po’, senza parlare, ma beandosi entrambi delle emozioni che fluivano dall’uno all’altro, finché videro comparire una capanna di rami e frasche, al centro di un macchione di arbusti. Vi si diressero, facendosi strada fra i rovi; scostarono la fascina che ne chiudeva l’ingresso ed entrarono. L’interno aveva tutta la precarietà di un rifugio occasionale di pastori: un cerchio di pietre al centro, quale focolare, un giaciglio di foglie secche in un angolo, coperto da alcune pelli di pecora, e una rozza ciotola sbreccata su uno sgabello.
“Qui staremo al sicuro”, disse Akos, risistemando la fascina a chiudere l’entrata.
“Purché non vengano i lupi…”, esclamò Thalos con un sorriso.
“Non verranno i lupi, - mormorò l’altro, andandogli vicino – e se verranno, ci sarò io a proteggerti.”
“Ci sarai tu a proteggermi.”, ripeté Thalos, perdendosi nuovamente nello sguardo infuocato del dio, che lo avvolse fra le braccia, cercandone le labbra.
Rimasero a lungo abbracciati, baciandosi con passione, poi si distesero sulle pelli di pecora del giaciglio e continuarono i loro giochi amorosi, amandosi con le labbra, con la lingua, con le mani, con le dita che esploravano vogliose ogni piccola piega dei reciproci corpi. Poi, le dita di Akos forzarono la minuscola apertura di Thalos.
“Ti voglio…”, mormorò.
“Sì…”, bisbigliò in risposta il giovane mortale e si sciolse dall’abbraccio, voltandosi e dandogli la schiena.
Le sue natiche carnose furono presto oggetto delle attenzioni del dio, che le impastò febbrilmente, le morse, le baciò, le leccò, strappando gemiti a Thalos di puro piacere, specialmente quando, nella furia della sua bramosia, Akos le aprì e vi affondò il volto, cercando con le labbra e poi con la lingua il tenero orifizio.
Thalos si sentì scuotere da un brivido selvaggio quando la lingua dell’altro penetrò nella sua intimità: mai avrebbe immaginato che si potesse fare una cosa del genere e men che meno che se ne potesse trarre tanto piacere.
I gemiti e i sospiri fluivano ininterrotti dalle sue labbra dischiuse, specialmente quando avvertì una punta smussata premere sull’apertura e subito dopo come un bastone di fuoco penetrarlo.
Era vergine Thalos, perché così piacevano al dio, ma non avvertì alcun dolore, mentre il cazzo si faceva strada lentamente nel suo retto inviolato, nessun dolore, ma solo un’inspiegabile, quanto gratificante, sensazione di pienezza, che presto si mutò in un piacere che mai avrebbe immaginato. Un piacere che andò via via crescendo, fino a farsi incontenibile, mentre il cazzo del dio scorreva dentro e fuori di lui.
Con un gemito strozzato, Thalos sentì il suo stesso sesso vibrare come impazzito, mentre il seme gli scorreva fuori ad ondate, inzuppando la pelle di pecora sotto la sua pancia. Le contrazioni dell’ano serrarono come una morsa l’uccello di Akos, trascinandolo nella foga del suo stesso orgasmo: con un guaito animalesco, infatti, il dio si irrigidì e, stringendolo a sé forsennatamente, gli eiaculò a fiotti nel retto il suo carico divino.
“Non uscire…”, mormorò Thalos, quando tutto fu finito.
“Non uscirò…”, mormorò Akos in risposta, e gli rimase dentro, stringendolo da dietro e premendogli contro il suo bacino ancora fremente.
Rimasero a lungo senza parlare, poi:
“Anch’io ti voglio…”, disse Thalos con un filo di voce.
“Sì, ma non ora… -rispose Akos - Riposa adesso, riposa…”, e gli versò negli occhi stille di dolce sonno, dono degli Immortali a ristoro dello spirito e del corpo.
Quando lo vide dormire, il dio si staccò da lui e gli comparve in sogno.
“Adesso devo andare, Thalos.”, gli disse.
“Sei un dio, vero?”, gli chiese Thalos nel sogno.
“Sì”
“Allora non ti avrò mai…”
“Adempi il tuo voto e torna fra un anno, Thalos, e io manterrò la mia promessa.”
E con queste parole, l’immagine del dio cominciò a scomparire fluttuando, come il riflesso in una pozzanghera, quando il vento la sfiora.

(continua)
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